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Rapidi, efficienti e divertenti. Così a Taiwan hanno evitato l’epidemia (e il lockdown)
 

Matteo Gerlini

4 luglio 2020
 

Nonostante l’interscambio di persone con la Cina popolare, il governo dell’arcipelago ha registrato pochissimi casi di coronavirus ed è riuscito a evitare il blocco delle attività, offrendosi come zona libera dal Covid alle grandi multinazionali


Nonostante sia separata dalla Cina continentale da un breve braccio di mare, l’arcipelago di Taiwan ha registrato pochissimi casi di Covid (ad oggi 447 su 27 milioni di abitanti) e sette decessi. Spesso assimilata a una generica esperienza asiatica di lotta al Covid, la vicenda taiwanese ha invece delle peculiarità notevoli, in particolare rispetto all’impiego dei mezzi digitali in una storia di contrasto all’epidemia decisamente di successo, nonostante l’interscambio di persone con la Cina popolare. Il governo taiwanese è riuscito ad evitare il blocco delle attività, offrendosi come zona libera dal Covid alle grandi multinazionali che avevano esternalizzato i propri stabilimenti nella Cina popolare.

Audrey Tang, una delle principali figure dell’informatica taiwanese, detiene il ministero digitale nel governo della presidente Tsai Ing-wen.

Come ha funzionato la piattaforma digitale di contrasto alla diffusione del COVID scelta da Taiwan?
Abbiamo eseguito un tracciamento dei contatti dei pochi casi di Covid, ma non attraverso una specifica app per la raccolta di dati. Fondamentalmente, non raccogliamo dati aggiuntivi per contrastare il Covid, quando e dove possiamo. Essendoci attivati per tempo, abbiamo agito sulle frontiere quando ancora nel Paese non vi erano focolai di contagio. Chi entra a Taiwan, cittadino o non, provenendo da un località ad alto rischio viene messo in quarantena, a casa sua o in alberghi usati per questo fine. Per controllare il rispetto della quarantena usiamo una barriera digitale: se il cellulare esce dalla area di quarantena, un SMS automatico viene inviato all’albergatore e alla polizia. Lo stesso avviene se il telefono viene spento, o se rimane a lungo fermo nello stesso posto, oppure se non vi è risposta ai messaggi di controllo in cui si chiede la temperatura corporea, per esempio. Usando questi mezzi, non c’è stato bisogno di una ulteriore raccolta di dati, come vorrebbe questa litania delle app Bluetooth-traccianti. Di solito veniamo accomunati alla Corea del Sud e a Singapore, ma abbiamo utilizzato procedure molto diverse. Voglio dire che non abbiamo impiegato braccialetti elettronici o app che registrino i contatti Bluetooth (come quella in adottata in Italia, NdR), ma abbiamo semplicemente usato i dati già in possesso delle compagnie telefoniche per controllare l’esecuzione della nostra prima misura di contenimento dell’epidemia, che non è digitale ma sociosanitaria: quattordici giorni di quarantena.

Uno dei dibattiti più controversi relativi alle contromisure digitali al COVID riguarda la privacy. Come ha risposto a questo problema il vostro governo, in termini di gestione dei dati, localizzazione e simili?
Abbiamo concentrato la difesa della privacy in primo luogo rispetto alle informazioni personali di tutti quelli sottoposti a quarantena, affinché non ci fosse uno stigma sociale verso di loro: chiunque sia in quarantena può godere del massimo riserbo. Per quanto riguarda invece i dati di localizzazione, come dicevo, abbiamo semplicemente preso quelli delle compagnie telefoniche, che non sono opzionali ma necessari al funzionamento dei cellulari, e comunque limitatamente al periodo di quarantena. Ripeto: non abbiamo aggiunto niente a quello che è già eseguito dai sistemi di telefonia mobile. Se qualcuno lo ritiene una violazione della privacy, dovrebbe sostenere che si sente più garantito nei suoi diritti dalle compagnie telefoniche anziché dalle istituzioni. A Taiwan sono le istituzioni democratiche che garantiscono i diritti dei cittadini di fronte alle grandi aziende, quindi il problema non si è nemmeno posto.

Il sistema sanitario pubblico taiwanese ha un’unica app per tutti i servizi, incluso il tracciamento e l’allarme Covid. Direi che uno degli aspetti più interessanti è stata la vostra capacità di raccogliere varie app in una sola attraverso un processo di crowdsourcing. Come avete creato questa piattaforma unica, e quali sono i suoi vantaggi?
In generale tutta la politica di innovazione sociale promossa dal governo si basa sugli input provenienti dalla cittadinanza, non solo degli sviluppatori di app. Il 1922 è il numero di telefono attivato dal centro di controllo delle malattie, aperto a qualsiasi comunicazione: richieste di informazioni sulla malattia, domande connesse alla gestione della pandemia, e anche suggerimenti, idee, proposte. Certamente la app unica deve essere costantemente adeguata, e le istituzioni devono essere disponibili a recepire questi input, ma si tratta di tenere aperti anche canali più classici di comunicazioni fra le istituzioni e i cittadini, come appunto il 1922 che gestisce fino a 30.000 chiamate al giorno, con picchi di risposta del 90 per cento.

Un esempio dei vantaggi della gestione digitale della crisi pandemica è rappresentato, dal punto di vista italiano, da un’efficiente distribuzione delle mascherine. In Italia non abbiamo un sistema del genere. Può spiegarci come questa funzione è stata aggiunta alla vostra app del servizio sanitario?
Diciamo che le mascherine sono ritirate nelle farmacie o nei chioschi aperti tutta la notte tramite la tessera del servizio sanitario nazionale oppure tramite la propria SIM. Per evitare lunghe attese in coda, l’innovazione sociale che ricordavo dianzi ha permesso di integrare i dati delle quantità di mascherine disponibili nei vari punti di distribuzione – dunque in possesso del servizio sanitario nazionale – con una app sviluppata da alcuni privati cittadini, che segnala dove è possibile trovare le mascherine e dove la coda è minore. Questo implica una mutua fiducia fra i cittadini e le istituzioni, che non è frutto di chissà quale alchimia culturale ma di un percorso di conquista dei diritti. Chiunque abbia più di trentacinque anni ricorda i tempi della legge marziale, quando i diritti civili non esistevano, e quanto è costato ottenere la democrazia, che non ci è stata regalata.

Va da sé che un’infrastruttura digitale adeguata è il presupposto necessario per tutte queste applicazioni. Qual è lo stato della connettività a Taiwan, e quali ulteriori investimenti avete pianificato, per esempio nella tecnologia 5G?
A Taiwan la banda larga è un diritto umano. In qualsiasi parte dell’arcipelago, per esempio sul picco più alto di Taiwan – quasi 4000 metri, il monte Saviah – puoi avere una connessione 4G illimitata a 10 Mb/s al costo di appena 16 dollari americani al mese. Voglio dire che non solo devi dare uguali opportunità alla gente, ma devi mettere al primo posto nell’inclusione digitale i luoghi più remoti: per questo il 5G deve iniziare dalle zone fisicamente più difficili da raggiungere, dove la gente è lontana dalle stazioni dei treni ad alta velocità. La connessione significa lavoro, assistenza sanitaria, partecipazione politica.

Quali misure di sicurezza cibernetica avete adottato nella gestione digitale della crisi pandemica? Vi sono state infrazioni di una certa portata nella gestione dei dati? Direi che questi problemi siano molto più seri di quelli relativi alla privacy, o perlomeno le due cose sono strettamente intrecciate.
Abbiamo limitato al minimo la visualizzazione dei dati sui display, come protezione fisica da parte di qualcuno che alle spalle dell’utente potrebbe leggere le sue informazioni ai chioschi o in farmacia. E comunque tutti i dati sono custoditi dello stesso gestore, cioè il sistema sanitario nazionale, che utilizza stringenti misure di cybersecurity. I dati personali non sono decentrati, nemmeno alle farmacie.

Il vostro governo ha lanciato l’hashtag #TaiwanCanHelp come parte del suo aiuto al resto del mondo nella lotta contro il coronavirus, aiuto di cui hanno fatto parte anche le forniture mediche inviate all’Italia. Pensate di fornire anche “aiuti digitali” agli altri paesi?
Certo, siamo pienamente disponibili a farlo. L’app di mappatura della disponibilità di mascherine nei punti di distribuzione è stata adottata in Corea del sud, eppure gli sviluppatori taiwanesi non conoscevano una parola di coreano. È un open source degli aiuti, che è parte del nostro programma di open government e di collective intelligence, su cui facciamo molto più affidamento rispetto all’intelligenza artificiale.

Quindi avete usato la nuova piattaforma digitale che ha contribuito a evitare il blocco delle attività, mantenendo l’economia taiwanese attiva ed evitando i costi del “lockdown”. Avete comparato la situazione attuale con quella della SARS del 2003, quando eravate privi di questo strumento?
I mezzi digitali hanno seguito l’esperienza reale e il dibattito politico: dall’esperienza della Sars abbiamo capito che la prima misura per contenere l’epidemia è la velocità dell’azione. Il centro di gestione delle malattie è stato istituito dopo quell’esperienza, e ci ha permesso di tradurre immediatamente in azioni pratiche l’allerta di polmoniti a Wuhan del 31 dicembre scorso. La corte costituzionale aveva ammesso, dopo il 2003, la legittimità dell’obbligo di quarantena per la delimitazione del contagio, e questo ha dato base giuridica al confinamento digitale. Il cardine del nostro sistema è la trasparenza e la libertà di accesso alle informazioni, la verificabilità di esse da parte dei cittadini. Questo è inseparabile dalla garanzia dello stato alla privacy dei cittadini, che non sono indotti a mentire sulle loro condizioni di salute perché non avranno complicazioni sociali e giuridiche derivanti dal contrarre la malattia. Nelle conferenze stampa quotidiane il centro di gestione delle malattie risponde ai quesiti posti dai cittadini al numero telefonico dedicato. Last but not least, abbiamo risposto alla disinformazione degli speculatori di panico tramite campagne indirizzate alla più ampia audience, usando meme e testimonial, e risalendo alle origini di quelle che in occidente chiamate fake news, deridendo i sobillatori. Per esempio era stata innescata una circolazione virale della paura di un imminente esaurimento dei fazzoletti di carta. Siamo risaliti fino all’origine della balla – messa in giro da un grossista di fazzoletti – e abbiamo dimostrato alla cittadinanza che i fazzoletti non mancavano e non sarebbero mancati. È stato lo slogan che ha guidato la nostra comunicazione: «Fast, fair and fun».

 

Link,  https://www.linkiesta.it/2020/07/taiwan-coronavirus-strategia-casi/

 



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